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Utilizzabili in sede penale gli atti amministrativi, anche senza garanzie

Il rapporto fra processo tributario e processo penale relativo ai medesimi fatti è complesso. Analizziamo una recente sentenza di Cassazione che analizza il valore degli atti amministrativi in sede di processo penaleE’ particolarmente interessante la pronuncia della Cassazione – sezione penale – n. 20358 del 28 settembre 2020– che torna ad occuparsi dellaproblematica legata all’utilizzabilità degli elementi raccolti in sede penale.Utilizzabilità degli atti amministrativi in sede penale: il fattoLa CTR dell’Umbria rigettava il ricorso proposto da una s.r.l. avverso l’avviso di accertamento relativo ad IVA ed altri tributi, notificatole per gli anni d’imposta 2012 e 2013, in relazione ad attività connesse ad operazioni inesistenti.Per quel che qui ancora rileva, la CTR riteneva infondata la censura relativa alla violazione dell’art. 220 disp. att. codice procedura penale formulata dalla ricorrente in relazione alla natura sostanzialmente penale dell’attività di indagine posta in essere dai militari della Guardia di finanza, rilevando l’autonomia fra il processo penale e quello tributario e l’impossibilità di fare derivare l’inutilizzabilità delle prove in ambito tributario.Così che “l’acquisizione di elementi ai fini fiscali senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale non determina l’inutilizzabilità degli stessi nel procedimento di accertamento tributario”.La società ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, ai sensi dell’art. 360 codice procedura civile, comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 220 disp. att. codice procedura penale.“Secondo la ricorrente, avendo l’Agenzia delle entrate di Perugia posto in essere una verifica ai fini fiscali dalla quale erano emersi indizi di reato per violazioni sussumibili nell’ambito degli artt. 2 e 8 d.lgs. n. 74/00, ne sarebbe dovuta derivare l’illegittimità dell’azione accertativa, in quanto gli agenti verificatori avrebbero dovuto attenersi alle disposizioni contenute nell’art. 220 disp.att. c.p.p., osservando le disposizioni previste dal codice di procedura penale”.Da qui l’erroneità della sentenza impugnata, “nella parte in cui non aveva fatto derivare dal mancato rispetto della disciplina processuale penale l’inutilizzabilità delle prove raccolte tanto determinando, altresì, una chiara violazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e al giusto processo tutelato dall’art. 6 CEDU, alla stregua dei principi espressi dalla Corte edu nella sentenza Chambaz c. Francia del 5 aprile 2012”.Il pensiero della CorteIl ricorso, pur ammissibile, per la Corte, è infondato.Ed invero:“la giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere unaetta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio – sancito non soltanto dallenorme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12,successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20) ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., cheimponel’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. nn. 22984, 22985 e 22986 del 2010; Cass. n. 13121/2012, Cass. n. 8605/2015).Si riconosce quindi, generalmente, che:“…non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai dell’accertamento fiscale comporta, di per sé, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale(quali l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.) – cfr. Cass. n.24923/2011, Cass. n. 31779/2019 e Cass.n.8459/2020 con riguardo ai giudizi civili-. Tale prospettiva si collega al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta all’art. 191 c.p.p., a norma del quale «le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate»”.Si è ancora più volte riconosciuto che n“on esiste (…) nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisit.eTale principio è stato introdotto nel “nuovo” codice di procedura penale, e vale, ovviamente, soltanto all’interno di tale specifico sistema procedurale (v. art. 191 c.p.p.)”, con la conseguenza che “l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso” (cfr. Cass. n. 8344 del 2001; conf. Cass. n. 13005 del 2001, n. 1343 e n. 1383 del 2002, n. 1543 e n. 10442 del 2003, Cass.n.8605/2015).Si è quindi precisato che:“in tema di accertamenti tributari, nelle indagini svolte, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 52 e 63, la guardia di finanza che, cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni, verifiche, ricerche ed acquisizione di notizie, ha l’obbligo di uniformarsi alle dette disposizioni, sia quanto alle necessarie autorizzazioni che alla verbalizzazione.Tali indagini hanno carattere amministrativo – con conseguente inapplicabilità dell’art. 24 Cost., in materia di inviolabilità del diritto di difesa, essendo applicabili, nella successiva ed eventuale procedura contenziosa, le garanzie proprie di questa – e vanno pertanto considerate distintamente dalle indagini, che la stessa guardia di finanza conduce in veste di polizia giudiziaria, dirette all’accertamento dei reati, con l’osservanza di tutte le prescrizioni dettate dal codice di procedura penale a tutela dei diritti inviolabili dell’indagato.La mancata osservanza di tali prescrizioni, rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide – purché non siano violate le dette disposizioni del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 52 e 63 – sul potere degli uffici finanziari e del giudice tributario di avvalersene a fini meramente fiscali, senza che ciò costituisca violazione dell’art. 24 Cost.” (cfr. Cass. n. 8990 del 2007; conf. 18077 del 2010, Cass.n.959/2018).Nel caso di specie la ricorrente non ha in alcun modo posto in discussione il mancato rispetto del quadro normativo di riferimento da ultimo ricordato a proposito dell’accertamento di natura fiscale, “né può ritenersi che l’utilizzazione a fini fiscali della documentazione e degli altri elementi di informazione acquisiti dagli organi accertatori presupponga che tale acquisizione avvenga nel rispetto delle norme del codice di processuale penale, stante il rinvio a tali disposizioni contenuto nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 70 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 75”.Invero, come già chiarito – cfr. Cassazione n. 959/2018 – l’espressa previsione contenuta nelle disposizioni da ultimo citate, in base alla quale l’applicazione delle norme processualpenalistiche “in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni” è contenuta nell’ambito di “quanto non diversamente disposto” dalle disposizioni dei predetti decreti, rende evidente che l’utilizzazione a fini fiscali di dati e documenti acquisiti dalla G.d.F. operante quale polizia giudiziaria è subordinata solo ed esclusivamente al rispetto delle disposizioni dettate dalle norme tributarie (nella specie, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, D.P.R. n. 633 del 1972, artt.52 e 63), fatti salvi, in ogni caso, i limiti derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico, come ad esempio la necessità di preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica, prevista dalle citate disposizioni tributarie, per procedere a determinate attività (accesso presso locali diversi da quelli di esercizio dell’attività del contribuente, perquisizione personale o apertura dei beni elencati del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3)”.Tanto è sufficiente per escludere la fondatezza della censura che non può avere migliore esito se si guarda al parametro rappresentato dall’art. 6 CEDU.Ed invero, a prescindere dalla questione dell’applicabilità:“di tale disposizione al processo tributario per il quale è qui processo, nel quale non vi sono in contestazione sanzioni di natura sostanzialmente penale deve ritenersi che la garanzia del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU trovi mediata applicazione in parte qua in relazione alla natura armonizzata di una parte della pretesa fiscale – IVA – in relazione al combinato disposto di cui all’art. 47 della Carta UE dei diritti fondamentali – pacificamente applicabile anche ai giudizi tributari non contenendo l’inciso limitativo riferito ai giudizi civili che compare nell’art. 6 CEDU”.E inoltre:“il richiamo alla giurisprudenza della Corte edu operato dalla parte ricorrente a sostegno della censura è del tutto fuori bersaglio”, atteso che la stessa si è limitata a chiarire che “qualora diversi aspetti, alcuni esterni all’ambito di applicazione dell’art. 6 CEDU – ad es., l’accertamento delle imposte – ed altri invece ricompresi nella nozione di materia penale entrano in gioco nella stessa vicenda, la garanzia del giusto processo si applica anche alle questioni che in linea di principio si collocherebbero al di fuori della propria competenza”.Brevi considerazioniCome è noto, in forza di quanto disposto dall’art. 220 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale:“Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.Quindi, la norma sembra assicurare il rispetto delle garanzie contemplate dal codice di procedura penale per raccogliere gli elementi utili “per l’applicazione della legge penale[”1] solamente alla ricorrenza di indizi di reato.In mancanza, gli elementi raccolti non potrebbero essere utilizzati, in sede penale, cadendo sotto la scure della “inutilizzabilità” prevista dall’art. 191 codice procedura penale (norma che, però, non trova una sua “gemella” nell’ordinamento tributario).La circolare n. 1/2018 della Guardia di FinanzaSul punto, la circolare della Guardia di Finanza n. 1/2018, ha affermato che, nell’ipotesi in cui, nel contesto delle attività ispettive, non soltanto di natura fiscale, siano acquisite risultanze tali da configurare, quanto meno nei principali elementi costitutivi di carattere materiale, “una violazione tributaria penalmente rilevante – e, dunque, non già semplici indizi di reato – gli operanti, alla luce delle qualifiche di polizia giudiziaria dagli stessi rivestite, devono provvedere senza ritardo ad informare il Pubblico Ministero competente, a norma dell’art. 347 c.p.p.; analogo obbligo è previsto dall’art. 331 c.p.p. per i pubblici ufficiali che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o servizio, abbiano notizia di un reato perseguibile d’ufficio[2]”.La stessa GDF rileva la severità della giurisprudenza di legittimità nel valutare siffatte condotte.Tuttavia, ritiene che, laddove si acquisisca conoscenza di una specifica situazione la quale risulti, dal punto di vista esclusivamente oggettivo, di possibile rilevanza penale, sorge l’obbligo di informare tempestivamente l’Autorità Giudiziaria[3].Sentenza Cassazione Sez. 6 Penale n. 1506 del 14/01/2019In sede giurisprudenziale, registriamo l’interessantepronuncia della Cassazione – sezione penale – n. 1506 del 14 gennaio 2019. Il Collegio rileva che:“la natura degli atti di verifica fiscale redatti dal personale della Agenzia delle entrate è tipicamente amministrativa, di tal che il loro svolgimento non richiede l’adempimento dell’obbligo da parte degli accertatori di avvisare il soggetto sottoposto a controllo della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia (Corte di cassazione, Sezione III penale, 23 febbraio2015, n. 7930), ciò tanto più ove, come nel caso di specie, gli indizi di reità che avrebbero dovuto allertare i funzionari accertatori sarebbero costituiti, secondo quanto riportato dalla parte ricorrente, solo dal fatto che il C. non avrebbe risposto ai questionari informativi a lui trasmessi dalla Agenzia in discorso”.Inoltre, gli elementi di reità a carico dell’imputato sono emersi “solo in occasione delle verifiche eseguite in ambito diverso rispetto alla sede della impresa gestita dal prevenuto”[4].Detta sentenza, quindi, libera i funzionari dell’Agenzia delle Entrate dall’obbligo di avvisare il soggetto sottoposto a controllo della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in quanto attività tipicamente amministrativa[5].Sentenza Cassazione Sez. 3 Penale n. 54590 del 6/12/2018La Cassazione sez. pen. n. 54590 del 6 dicembre 2018 ha tuttavia affermato che in sede penale sono inutilizzabili le dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato rese nel corso dell’attività ispettiva, nei cui confronti siano emersi anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni siano state assunte, ciononostante, in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa.Sentenza Cassazione Sez. 3 Penale n. 41939 del 3/4/2019Mentre il Collegio di Cassazione – ordinanza n. 41939/2019 – richiamando la pronuncia n.1969 del 21 gennaio 1997, ha ribadito che:“in materia di accertamento dei reati tributari, il processo verbale di constatazione redatto dallaGuardia di Finanza o da funzionari degli uffici finanziari è un atto amministr extraprocessuale come tale acquisibile ed utilizzabile ex art. 234 cod.proc.pen. nel suo vario contenuto, senza necessità di dover richiamare normative affini o analoghe del codice di rito stabilite per specifici mezzi di prova: tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità prescritte dall’art. 220 norme di coordinamento cod.proc.pen., giacchè, altrimenti, la parte del documento redatta dopo tale momento non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile. Tale principio è rimasto immutabile nella giurisprudenza (si veda tra le più recenti Cass. sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015)”.Nel caso di specie, osserva la Corte:“i ricorrenti non avevano specificato i motivi di applicazione del citato art. 220 ….e soprattutto non avevano indicato le circostanze acquisite dalle dichiarazioni rese ai finanzieri senza le garanzie di legge e quindi inutilizzabili”.Se vuoi approfondire l’argomento, puoi leggere:“Pvc utilizzabile in sede penale in assenza di garanzie difensive?”***NOTE[1] In casi come questi, pertanto, i verificatori sarebbero tenuti a rispettare tutte le prescrizioni previste dal codice di procedura penale, tra cui, ad esempio l’invito a nominare un difensore nel caso in cui si rendano dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità (articolo 63 c.p.p.), l’avvertimento della facoltà di non rispondere ad alcuna domanda (articolo 64 c.p.p.) e la contestazione in forma chiara e precisa del fatto che è attribuito all’indagato, rendendo noti gli elementi di prova esistenti e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, le relative fonti (articolo 65 c.p.p.).[2] Ai sensi del comma 2-bis del citato art. 347 c.p.p., laddove siano stati compiuti atti per i quali sia prevista la presenza del difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, la comunicazione della notizia di reato è trasmessa al più tardi entro 48 ore dal compimento dell’atto, fatto salvo quanto stabilito da disposizioni normative specifiche che prevedano termini particolari.L’omesso o il ritardato inoltro all’Autorità Giudiziaria della comunicazione di notizia sono condotte penalmente sanzionate alla luce dell’art. 361, comma 2, c.p..[3] Specificamente in tema di reati tributari, la pronuncia n. 20043 del 7 ottobre 2015 della Corte di Cassazione, richiamando i principi espressi dalla sentenza n. 247 del 2011 della Corte Costituzionale, ha ribadito che l’obbligo informativo al Pubblico Ministero da parte dell’Amministrazione finanziaria e della Guardia di Finanza sussiste anche laddove ricorrano cause di non punibilità e/o di estinzione del reato ovvero impeditive della prosecuzione delle indagini penali, il cui riscontro è riservato ex lege alla sola Autorità Giudiziaria.Registriamo ancora la pronuncia n. 50657, depositata in data 8 novembre 2018, con cui la Cassazione ha rilevato che qualora nel corso di una verifica fiscale il contribuente non è stato informato del diritto di farsi assistere dal difensore di fiducia, essendo emersi indizi di reato, il successivo sequestro è illegittimo in quanto, si fonda su documenti non utilizzabili.In queste ipotesi, infatti, va assicurata l’assistenza tecnica, al fine di garantire il diritto di difesa; e la sentenza della Corte di Cassazione – Sez.pen. – n. 54590 del 6 dicembre 2018, che ha ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato rese nel corso dell’attività ispettiva, nei cui confronti sono emersi anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni sono state assunte, ciononostante in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa.Infatti, l’espressione “quando…emergano indizi di reato” contenuta nell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. “è tesa a fissare il momento a partire dal quale, nell’ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge l’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penaleper assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale (Sez. 5, n. 43542 del 23/09/2004, Morrillo ed altri, Rv. 230065; cfr. anche Sez. 3, n. 3207 del 02/10/2014, dep. 2015, Calabrese, Rv. 262010).L’art. 220 cit. è applicabile quindi anche in presenza di semplici indizi di reato, non richiedendosi l’esistenza di veri e propri indizi di colpevolezza (cfr. Sez. 5, n. 32464 del 26/06/2001, Busatta, Rv. 219703).Infatti, è stato ribadito che presupposto dell’operatività della norma è la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291)”.[4] In particolare, a tale riguardo si parla delle verifiche eseguite presso la Società che si era avvalsa dei servizi offerti del ricorrente, “sicché non vi era alcun obbligo, fin tanto che le operazioni di verifica tributaria hanno direttamente coinvolto l’odierno ricorrente, di attivare in suo favore le garanzie difensive previste dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen.”Nessun dubbio, pertanto, ha la Corte in ordine “alla utilizzabilità in giudizio, correttamente valorizzata in sede di merito, degli elementi conoscitivi acquisiti a seguito della attività di verifica amministrativa svolta in sede tributaria in relazione alla posizione fiscale de prevenuto”.[5] Cfr. ANTICO-GENOVESI, Valido l’accertamento basato su elementi raccolti senza le garanzie difensive previste in ambito penale, in “il fisco”, n.16/2018, pag.1542.

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